Essere inventore nel 2020. La storia di Cristian Fracassi.


19 Nov 2020

Essere inventore nel 2020. La storia di Cristian Fracassi.

Cristian Fracassi, founder di Isinnova, ha inaugurato la decima edizione di Richmond IT Director forum, che si è svolta quest’anno in modalità pixel invece che live, e si è dovuta accontentare degli schermi del pc dei partecipanti invece che occupare, come da tradizione, i saloni maestosi del Grand Hotel di Rimini.

Christian Fracassi è un ingegnere e architetto di 37 anni, la sua pronuncia non nasconde le origini bresciane.
Fracassi si può ben definire un ambasciatore di innovazione: di questa tensione a cambiare il mondo in meglio ne ha fatto una vocazione, un mestiere e un’impresa. Il suo racconto  scorre come un fiume in piena.

Il mio amore per l’innovazione nasce nel 2009. Ero all’ultimo anno di università, stavo cenando con i miei genitori e alla televisione hanno mostrato le immagini del terremoto dell’Aquila. Immagini drammatiche, gente che piange, case distrutte. Mi sono sentito chiamato in causa, mi sono sentito colpevole per quegli edifici che erano stati progettati da un ingegnere o da un architetto come me. Mi sono chiesto: e se fosse successo a Brescia?

A Ingegneria mi hanno insegnato a progettare case, a fare i calcoli strutturali e dirigere un cantiere, ma non mi hanno insegnato a realizzarla fisicamente. Che cosa avrei potuto fare per aiutarli? Spostare macerie da una parte all’altra della strada? Ma questo potevano farlo benisismo senza di me.
Se mi avessero messo in mano una cazzuola e un sacco di cemento, non avrei saputo da dove iniziare.

È allora che mi è venuta in mente la prima idea.
Il mattino dopo ero fermo alla fermata del bus che mi portava all’università. Mentro aspetto, vedo un camioncino che consegna le casse dell’acqua a un ristorante. Da buon ingegnere inizio a fare i miei conti, 20 casse d’acqua, ogni cassa 12 bottiglie… 180 chili, ripartiti su una superficie, di qualche centimetro.

E se provassimo a realizzare dei mattoni in plastica così leggeri che si incastrano l’uno dentro l’altro?
Arrivato in università ne parlo con la professoressa e le dico che ho trovato il mio argomento di tesi: le case in plastica. Lei mi dice: bella idea, mi piace che ti sei proposto tu, temo però che la tua tesi non possa andare oltre le due pagine. Non ho mai sentito parlare di plastica. Aveva ragione, il materiale non era nemmeno contemplato nelle norme tecniche. Il che vuol dire che a livello di normativa non era possibile realizzare case in plastica. Io però ho scritto 680 pagine di tesi. Ho scoperto che in Germania e in altri Paesi la plastica era già utilizzata come materiale strutturale. Mi accorgo però non che non so progettare bene con le plastiche, le plastiche hanno una serie di problemi. Già a 60 gradi la plastica perde il 30% delle proprietà meccaniche. E una casa ci può arrivare facilemente a questa temperatura.

Mi faccio quindi 3 anni di dottorato in ingegneria dei materiali, specializzazione Polimeri fibrorinforzati.
Di giorno lavoravo in università, la sera progettavo il mio mattone.
Dopo tre anni il mattone era pronto. Decido quindi di andarlo a presentare a qualche imprenditore. Suono a diverse porte, incontro tante persone, mi dicono tutti: Bellissima la tua idea.
Quanti soldi ti servono? In quanto tempo recupererò l’investimento? Quali saranno il ROI e l’EBITA? Mi rendo conto che senza un’infarinatura economica, le porte si chiudevano.
Allora decido di fare un master in Sviluppo del business. Non divento un economista ma almeno ho imaprato a leggere un bilancio e a rispondere a quelle domande.

Poi partecipo a tanti concorsi di idee.
Sono una persona ipercompetitiva, che ama mettersi in gioco. Alcuni concorsi li vinco. In particolare uno, indetto dalla Camera di Commercio di Milano, al quale avevo presentato un’idea legata ai prodotti surgelati.
Il primo premio è una somma in denaro: era la prima volta che ricevevo del danaro, prima erano solo computer, calze, un dizionario… Questa volta arrivano 5mila euro. Avevo 26 anni, ed era il mio primo guadagno.
Non possedevo ancora un’auto, adesso potevo finalmente comprarmene una invece di farmi venire a prendere dalla mia fidanzata, oppure investirli.
Ho deciso di brevettare l’idea con cui ho vinto il concorso, e ho perso la mia ex fidanzata.
Qualche giorno dopo aver letto l’articolo sul giornale, mi contatta un imprenditore. Mi piace la tua idea, vorrei avere il brevetto in licenza per 5 anni. Quanti soldi vuoi? E io, che ero molto ignorante, avevo speso 4.200 euro per depositare il brevetto,  ho aggiunto 10mila euro di margine, e ho chiesto 14.200 euro. Chiudiamo l’accordo, entrambi convinti di aver fatto un affare. Poi ci conosceremo meglio, e questo imprenditore diventerà –oltre che mio testimone di nozze – partner e socio in Isinnova.

Isinnova ha l’obiettivo di aiutare gli inventori  e le aziende che vogliono fare innovazione a migliorarsi.
Sono partito da solo, oggi siamo un piccolo centro di ricerca e trasferimento tecnologico con 14 persone, tutte molte diverse ma tutte giovani, dai 21 ai 32. Io sono il più vecchio.
Quest’anno anno abbiamo avuto molta visibilità sui media per la vicenda dei respiratori. Vi racconto come è andata.

Siamo ai primi di marzo, in pieno lockdown. Ricevo una telefonata dalla direttrice del Giornale di Brescia Nunzia Maldini, che mi chiede se ho ancora le stampanti 3d accese per dei piccoli pezzi di plastica che servivano a degli ospedali. Per realizzare i prototipi dei nostri clienti abbiamo in casa 5 0 6 stampanti 3d. La causa è nobile e io mi metto subito a disposizione.
Mi metto in contatto direttamente con l’ospedale di Chiari, erano rimasti senza valvole Venturi, che servono per collegare le maschere ventilatorie ai respiratori in terapia intensiva. Per 122 pazienti ricoverati avevano solo venti di queste valvole. Siamo andati in ospedale, abbiamo preso una valvola usata, l’abbiamo sterilizzata e siamo tornati in ufficio.
Abbiamo contattato la multinazionale che li produce con sede in Liechtenstein per avere i file di stampa 3d. La risposta è no.
Allora in poche ore la ridisegniamo noi in 3d calibro alla mano e stampiamo il pezzo. Abbiamo fatto i cinesi di turno: abbiamo preso un prodotto esistente, lo abbiamo ricalcato e lo abbiamo realizzato.

Ne abbiamo subito date 4 all’ospedale per fare dei test. Dopo mezz’ora l’ospedale dice che funzionano e ci dice che ne ha bisogno di 100.
Attiviamo la stampante 3d di uno dei miei soci, sembra semplice, ma la valvola contiene un foro da 0,6 mm, più piccolo di un ago, ed è quello che permette la miscelazione fra ossigeno e aria.
A 0,8 mm non funziona, a 0,4 mm uccide il paziente. I fori li abbiamo fatti noi a mano, uno a uno, con frese da gioielleria, per evitare dimensioni non corrette. La domenica mattina consegniamo 100 valvole all’ospedale.

Riporto a casa i ragazzi in macchina, convinto di aver finito il lavoro.
Dico loro di staccare e riposarsi, ma le cose non andranno così: al pomeriggio ricevo la telefonata di un medico in pensione, Renato Favero, che ha avuto un’idea. Lo ascoltiamo, ci fa una lezione di 2 ore di anatomia, spiegandoci il principio di funzionamento dei polmoni, gli alveoli, la polmonite, le maschere respiratorie e di come vengono trattati in ospedale i malati covid.
Dopo di che tira fuori dallo zaino una maschera della Decathlon per fare snorkeling. La sua idea è che a breve sarebbero mancate non solo le valvole Venturi che noi avevamo realizzato, ma anche le maschere e i respiratori. Io non sono un ingegnere e non so come convertire questa maschera da snorkeling in una maschera respiratoria, ma ora che vi ho dato un’infarinatura di medicina, secondo me potete fare un ottimo lavoro. Ci saluta e ci lascia con questa maschera in mano.

In circa 8 ore sviluppiamo la valvola Charlotte, un pezzo di plastica stampato in 3d che sostituisce il boccaglio e si collega alla parte alta della maschera. Accoglie il tubo dell’ossigeno in ingresso, e i filtri e le valvole di regolazione della pressione in uscita. Sembra funzionare. Contattiamo Decathlon, che ci mette a disposizione 10 maschere per fare i test e ci mette a disposizione i file 3d nell’arco di un pomeriggio senza firmare nessun accordo di riservatezza. Realizziamo le valvole, chiamiamo l’ospedale di Chiari e decidiamo di fare insieme dei test. I test durano tre giorni. Il 13 di marzo 4 ospedali fra quelli contattati ci fanno sapere che ognuno di loro ha bisogno di circa 20 maschere. Ci diamo l’obiettivo di produrre un centinaio di maschere, è abbastanza fattibile. Per stampare una valvola ci vogliono circa due ore. Tutto il nostro lavoro è ovviamente a titolo gratuito.

In quei tre giorni la situazione di colpo precipita. Gli ospedali probabilmente iniziano a parlare fra di loro, e veniamo a sapere che tanti altri ospedali hanno lo stesso problema. Una cinquantina di ospedali ci contattano nell’arco di 3 giorni. Nel frattempo Chiari dà esito positivo ai test. Veniamo contatti dalla Protezione Civile, che compra da Decathlon 500 maschere e ha bisogno di 500 valvole Charlotte. Noi entriamo in crisi. Lì allora ci viene in mente una nuova idea. Quella di fare rete. Facciamo in fretta e furia un sito e carichiamo il file 3d. Grazie ai giornali e qualche giornalista in tv, lanciamo un appello: chiunque abbia in casa una stampante 3d la accenda, scarichi direttamente il file dal nostro sito e si metta a stampare le valvole, consegnandole direttamente all’ospedale. Dalla domenica pomeriggio, quando abbiamo lanciato la richiesta di aiuto, a lunedì mattina, abbiamo ricevuto 1.200 valvole Charlotte in pacchettini da due o da tre. Il pomeriggio saranno arrivati 400 pacchi, che abbiamo dato alla Protezione civile per distribuirle su tutto il territorio nazionale.

Il progetto prende un’onda prima nazionale e poi internazionale.
Al terzo giorno dal lancio mi arriva un whatsapp da dei medici brasiliani, che ci dicono che grazie a noi 100 pazienti in Brasile stavano respirando.
Sono notizie che ti toccano, questo progetto è stato estremamente istruttivo per noi. Ho perso 8 chili, tantissime ore di sonno e anche soldi, visto che abbiamo messo sul piatto tre mesi di lavoro di 14 persone full time, facendo fronte a più di 10mila richieste da tutto il mondo.
Abbiamo fatto decine e decine di interviste ovunque per spiegare il progetto.
E infine abbiamo raccolto 12mila euro di fondi con i quali abbiamo comprato stampanti 3d da donare agli ospedali in quattro Paesi: Burkina Faso, Ruanda, Mozambico, e Zambia. Lì i turisti lasciano le maschere da snorkeling, ma non c’erano a disposizione stampanti per realizzare le valvole.

Che cosa mi porto a casa da questa esperienza?
Siamo stati in balia delle onde per tanto tempo e abbiamo avuto paura perché stavamo facendo qualcosa per la prima volta: non avevamo mai progettato valvole in vita nostra, e non avevamo mai giocato con la vita delle persone. Queste piccole valvole hanno salvato molte vite, ma potevano anche farle finire. Il rischio di avere in carico delle vite, il saperlo, è qualcosa che non ti fa dormire la notte. E in più dovevamo fare il lavoro in 8 ore perché i medici ci scongiuravano.

Ho imparato che è importante il saper fare squadra e il chiedere.
Tutto poggia sulla fiducia.
Noi ci siamo fidati del medico che ci ha raccontato la sua idea, senza poterla validare. L’ospedale si è fidato di noi. E nonostante i medici fossero stremati, ci hanno accordato 3 giorni per i test.
Decathlon, multinazionale da 7 miliardi di fatturato, si è fidata di una piccolissima azienda che li ha cercati per telefono e si è messa e a disposizione senza voler prevaricare o prendere in mano le redini del progetto.
16 mila maker in mezza giornata hanno risposto all’appello e hanno messo in moto le loro stampanti per donare le valvole agli ospedali.
Io ho ricevuto il titolo di Cavaliere della Repubblica e ne sono iperonorato. Ma vorrei dedicarlo a tutti quelli che mi hanno aiutato.
Isinnova alla fine ha realizzato 100 valvole su 150mila maschere realizzate nel mondo, meno dell’1%. Il 99% l’ha fatto qualcun altro.

In questo caso l’idea è nata da un bisogno: mancavano maschere respiratorie, e servivano subito.
Come può un’azienda inquadrare i bisogni e capire come fare innovazione? Noi abbiamo individuato tre metodi.

1. Parlare con l’utente finale.
Io ho un cliente che fa valvole sanitarie per grandi aziende come Leroy Merlin, Bricoman e grandi ferramenta. L’utilizzatore finale è l’idraulico.
Le insegne non avevano mai parlato con gli idraulici per capire se i loro prodotti fossero belli, brutti, comodi, scomodi o migliorabili. Sembra banale ma non lo è: parlate con i clienti finali. Così capirete se il prodotto che state sviluppando è buono, perfetto o migliorabile.

2. Parlare con i dipendenti se avete un’azienda che abbia almeno 30-40 dipendenti.
Sono loro che lavorano dalla mattina alla sera con lo stesso prodotto, lo tengono in mano tutti giorni e probabilmente hanno già delle idee migliorative.
Molto spesso però hanno paura di parlare ed esporre le loro idee ai superiori o addirittura al fondatore. O magari temono che la loro idea non sia poi così innovativa. Si fanno ‘riguardi’, e questo sia che le loro idee impattino sul prodotto o sul processo produttivo.
Se provate a esplorare questo terreno, scoprirete che hanno molte più idee loro che un consulente esterno.

3. Studiare il mercato e i competitor.
Certe volte basta fare una verifica basica dei numeri per decidere di non avventurarsi in avventure che anche se vinte, non genererebbero numeri interessanti.

In generale, bisogna capire poi di che tipo di innovazione si vuole portare avanti. Ce ne sono di due tipi.
L’innovazione incrementale – quando si va a migliorare un prodotto esistente – e quella disruptive, quella che sconvolge il mercato.
Parlando di raccolta differenziata della plastica, i sacchi gialli che vengono ritirati nelle abitazioni occupano molto spazio.
Conterranno 1 chilo, 1 chilo e e mezzo di plastica, non di più.
Esempio di innovazione incrementale: i camion normali sono diventati nel tempo camion compattatori, evitando di trasportare aria e consentendo il trasporto di un numero maggiore di sacchi.
Esempio di innovazione disruptive: un signore ha inventato un bidone di circa 1 metro cubo con un coperchio, su questo coperchio è appoggiato un piccolo dispositivo molto semplice realizzato con Arduino, e ogni volta che un uccellino porta un tappo, una bottiglia o una lattina, rilascia un seme o un chicco di mais. I merli, si sa, non sono mica stupidi. Ognuno di loro ‘lavora’ gratuitamente per l’ambiente. Questo è un bell’esempio di innovazione disruptive.

Credo che ognuno di noi abbia molte idee. Anche i sogni sono idee.
Non è un periodo in cui le idee scarseggino, mi pare.
Ma fra un’idea e il suo successo c’è un mondo: bisogna riuscire a sviluppare. Questo è il mio messaggio: rimbocchiamoci le maniche.
Proviamoci. E quando saranno maturi, i frutti arriveranno.

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